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06/06/2023

– in corso

Museo delle Opacità. Documentare la complessità del passato coloniale, ricercarla nel presente, condividerla per il futuro

 

Con il titolo di Museo delle Opacità, il 6 giugno 2023 il Museo delle Civiltà presenta il nuovo capitolo dedicato al riallestimento in corso delle collezioni e delle narrazioni museali: un nucleo di opere e documenti dalle collezioni dell’ex Museo Coloniale di Roma, entrate a far parte delle collezioni del Museo delle Civiltà nel 2017 e in corso di ri-catalogazione, vengono messe in dialogo con opere contemporanee che comprendono anche nuove acquisizioni rese possibili dal bando PAC-Piano per l’arte contemporanea del Ministero della cultura e nuove produzioni realizzate attraverso processi di residenza nel contesto di Taking Care-Ethnographic and World Cultures Museums as Spaces of Care, co-finanziato dal programma Creative Europe dell’Unione Europea.

Il termine “opacità” assume nel titolo un duplice significato: da un lato fa riferimento, in modo letterale, al velo opaco dell’amnesia caduto sull’epoca coloniale della storia nazionale che ne rende ancora poco conosciuti gli avvenimenti, le cifre e i nomi dei protagonisti. Dall’altro lato l’opacità è quella teorizzata dal poeta e saggista Édouard Glissant (Sainte-Marie, Martinica, 1928-Parigi, 2011) – i cui scritti sono stati fondamentali per lo sviluppo del pensiero post e de-coloniale contemporaneo – che aveva partecipato nel 1959 al 2º Congresso Mondiale degli Scrittori e Artisti Neri organizzato presso l’Istituto Italiano per l’Africa di Roma (l’ente a cui nel 1956 furono affidate le collezioni del Museo Coloniale di Roma). L’opacità, per Glissant, è il diritto di ogni individuo di non assoggettare la propria identità a criteri quali “accettazione” o “comprensione”, che equivalgono a gesti di appropriazione e di classificazione unilaterali, ma al criterio della “condivisione”, che conduce ad assumere e condividere identità autonome e specifiche, generate non dagli altri ma da sé stessi.

È in questo senso che il Museo delle Civiltà ha deciso di condividere con molteplici soggetti – cittadine e cittadini, gruppi collettivi e comunità, artiste e artisti, curatrici e curatori, ricercatrici e ricercatori – le proprie riflessioni su come interpretare e riallestire una selezione di opere e documenti delle collezioni dell’ex Museo Coloniale di Roma che testimoniano la quasi secolare storia coloniale italiana in Africa (1882-1960) e che furono originariamente musealizzati con una funzione di propaganda a supporto della costruzione degli immaginari e delle politiche coloniali. Nel dotarsi di un metodo di ricerca plurale e partecipato, il Museo delle Civiltà affronta innanzitutto le proprie responsabilità istituzionali nei confronti dei circa 12.000 oggetti – reperti archeologici, opere d’arte, manufatti artigianali, merci, sementi, strumenti scientifici e tecnologici, carte geografiche e dispositivi allestitivi – che dal 1971, anno di chiusura dell’ex Museo Coloniale, sono rimasti oltre 50 anni in deposito, innescando da un lato un fenomeno di rimozione collettiva della storia coloniale italiana, ma dall’altro anche una sua necessaria ricontestualizzazione nel nostro presente. Ciò che ne emerge è la potenzialità rigenerativa di queste stesse collezioni, una volta messe in dialogo con opere d’arte e documenti contemporanee.

È su questo dialogo che si fonda quindi l’ipotetico Museo delle Opacità: utilizzando le fotografie degli allestimenti storici come “testimonianza antropologica”[1], ovvero come memoria critica del contesto museale originale, è possibile ricostruire i rapporti tra gli oggetti e i dispositivi linguistici ed espositivi che ne sostenevano l’interpretazione ma anche innescare la possibilità di nuove modalità di documentazione, ricerca e condivisione. In particolare, la possibilità immaginifica di rinegoziare i termini stessi delle storie raccontate, proiettandole dal passato al futuro per restituire la parola anche alle tante soggettività che furono a suo tempo escluse dagli allestimenti e dalle narrazioni dell’ex Museo Coloniale o rese alterità utili a definire una contrapposizione invece che, appunto, un dialogo fra soggetti e culture.

Quello dell’opacità è quindi un criterio possibile non solo per riscrivere la storia dell’ex Museo Coloniale di Roma, investigando i meccanismi che lo hanno generato in passato, ma anche per sprigionare la forza propulsiva di nuove narrazioni che potranno contribuire, di fatto, a che non esistano in futuro nuovi Musei Coloniali ma spazi e tempi di condivisione, piattaforme in divenire di compartecipazione, incontro e confronto.

Collocata nell’ingresso del Palazzo delle Scienze, l’opera የካቲት ፲፪ – Yekatit 12 di Jermay Michael Gabriel apre il percorso del Museo delle Opacità creando un cortocircuito sia visivo che storico con lo scalone monumentale del Palazzo: l’opera è una copia fedele di quella costruita ad Addis Abeba durante il periodo coloniale per inserire l’occupazione dell’Etiopia nella storia dell’epoca fascista. Percorrendo lo scalone, sul mezzanino che conduce al primo piano sono esposti una serie di bozzetti di Francis Offman che costituiscono i primi appunti di lavoro per un intervento futuro dell’artista che si svolga come un confronto in essere con l’architettura dell’edificio del Palazzo delle Scienze, volto a integrarne la percezione dei grandi apparati decorativi commissionati nel 1942 per la mai inaugurata Esposizione Universale di Roma. 

Il mezzanino che sovrasta le Collezioni di Arti e Culture Americane e Asiatiche è dedicato a 3 dialoghi trans-temporali. La prima sala si focalizza sul tema delle appropriazioni coloniali, attraverso lo studio sul gruppo di tele prelevate dal Parlamento di Etiopia tra il 1936 e il 1938 e parzialmente restituite negli anni Cinquanta. Le due opere nel percorso espositivo, dipinte da Agegnehu Engida, sono allestite accanto al video Il ritorno della stele di Axum di Theo Eshetu che narra il lungo e articolato processo di restituzione del monumento compiuto dallo Stato italiano. L’opera di Eshetu trova inoltre una nuova contestualizzazione nell’accostamento alla Battaglia di Adua, di autori ignoti, e a La Leggenda della Regina di Saba, di Balacciaw Yimar, testimonianza, quest’ultima, del canone compositivo della pittura etiope a cui anche il video di Eshetu fa riferimento. La seconda sala si focalizza invece sulla Libia e sul rapporto tra la cartografia coloniale e la cancellazione delle memorie connesse a un territorio e ai popoli che lo attraversano, come emerge nell’opera La montagna verde di Adelita Husni Bey. La terza sala – proprio come nell’ex Museo Coloniale, che ospitava una sala-cinema per la proiezione di cinegiornali – è trasformata in una sala-cinema in cui è proiettato Inconscio italiano, film di Luca Guadagnino a metà tra documentario e saggio visivo che elabora le immagini storiche dell’Istituto Luce come fossero il prodotto di una seduta psicanalitica in cui far emergere dall’inconscio un rimosso collettivo.

Il mezzanino che sovrasta le Collezioni di Arti e Culture Africane proietta il Museo delle Opacità nel futuro, più precisamente nel 2154, anno in cui il collettivo artistico animato da Wissal Houbabi, Toi Giordani e Ismael Astri Lo ha immaginato l’apertura di un’istituzione chiamata ph0n0museum . rome. Il pubblico percorrerà una casa-museo della diaspora nella quale gli oggetti etnografici delle collezioni coloniali sono esposti attraverso le scelte individuali delle comunità afrodiscendenti che hanno partecipato alla residenza artistica di Houbabi al Museo delle Civiltà nel 2022-23 e che gettano così, attraverso la condivisione di nuove narrazioni, le fondamenta per la genesi dell’istituzione immaginaria e futuribile del ph0n0museum . rome.

Il mezzanino che sovrasta le Collezioni di Arti e Culture Oceaniane approfondisce, infine, il rapporto tra arte e propaganda su cui si definì e strutturò la funzione dell’ex Museo Coloniale. Il percorso espositivo ne evoca in particolare la Sala delle Arti, in cui l’operato sul campo di vari artisti italiani (come Eduardo Ximenes) assecondava la costruzione di una narrazione immaginaria degli eventi storici. A fianco delle loro opere sono esposte quelle di autori etiopi ed eritrei, come alaqā Brahānē, che ci offrono una versione speculare della rappresentazione dell’altro liberata dall’immaginario coloniale. Allo stesso tempo l’opera di Rossella Biscotti sulla strage di Zeret (1939) si relaziona con le foto della sala che in quegli stessi anni venne allestita nell’ex Museo Coloniale in onore di Rodolfo Graziani: due versioni della stessa storia. I meccanismi di legittimazione dell’immaginario coloniale sono inoltre richiamati dall’opera di Peter Friedl e dalle ricerche in corso di Bianca Baldi e Malak Yacout, nonché dall’esposizione di materiali grezzi e lavorati prodotti con la palma doum, che divenne un bene commerciale fondamentale e la cui storia testimonia la logica estrattiva delle risorse naturali propria di tutte le economie coloniali.

Parallelamente all’apertura del Museo delle Opacità, sono presentati gli interventi allestitivi di due degli artisti in residenza (Research Fellow) al Museo delle Civiltà: Sammy Baloji e DAAR – Sandi Hilal e Alessandro Petti, rispettivamente premiati lo scorso 20 maggio 2023 con una Menzione speciale e con il Leone d’oro come miglior partecipazione alla 18. Mostra Internazionale di Architettura-La Biennale di Venezia.

Sammy Baloji interviene nel nuovo ingresso delle Collezioni di Arti e Culture Africane del Museo delle Civiltà con l’installazione Gnosis (2022), composta da una grande sfera nera in fibra di vetro che evoca e rappresenta una rivisitazione di una wunderkammer seicentesca: come un mappamondo sferico che abitualmente adornava gli antichi studioli e gabinetti delle curiosità, la sfera di Baloji, posta al centro della stanza assorbe e riflette tutte le immagini circostanti piuttosto che restituirne una univoca, come imporrebbe invece la cartografia scientifica. L’unica mappa che si riflette nell’opera è quella del Katanga, regione di origine dell’artista, dove, sia nel passato che oggi, si concentrano la maggior parte delle attività estrattive minerarie della Repubblica Democratica del Congo. Nei riflessi appaiono anche due placche in bronzo (Fragments of Interlaced Dialogue [1][2], 2017) rappresentanti i tessuti Kongo conservati nelle collezioni etnografiche del Museo delle Civiltà: come il video posto all’ingresso (Of the Moon and Velvet, 2022), entrambe le opere – acquisite grazie al piano Piano per l’Arte Contemporanea 2022, promosso dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea, Ministero della Cultura – manifestano i sistemi epistemici racchiusi dalla decorazione degli antichi manufatti a cui si ispirano: solo oggi, grazie a pratiche de-coloniali come quella di Baloji, essi tornano a far parlare la gnosi africana, intrecciandosi con i suoi scenari contemporanei.

Il collettivo artistico DAAR – Sandi Hilal e Alessandro Petti presenta il progetto vincitore del Leone d’oro all’ultima edizione della Mostra Internazionale di Architettura-Biennale di Architettura, ovvero l’Ente di Decolonizzazione – Borgo Rizza, opera realizzata grazie al sostegno dell’Italian Council (10 edizione, 2021), programma di promozione dell’arte contemporanea italiana nel mondo della Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura e in comodato a lungo termine al Museo delle Civiltà dalla Fondazione Donnaregina per le Arti Contemporanee, Napoli. Dal 2021 l’Ente esplora le possibilità di riappropriazione critica, riutilizzo e sovversione dell’architettura coloniale italiana di epoca fascista e della sua eredità modernista. In particolare, il progetto analizza l’insediamento rurale di Borgo Rizza costruito nel 1940 dall’Ente di Colonizzazione del Latifondo Siciliano la cui funzione era quella di bonificare, modernizzare e ripopolare la Sicilia interna, che il regime considerava arretrata, sottosviluppata e “vuota”, adottando una progettualità simile a quella della pianificazione urbanistica coloniale in Libia, Somalia, Eritrea e Etiopia. L’installazione è una riproduzione in scala della facciata principale dell’edificio di Borgo Rizza, esistente a Carlentini (Siracusa), che gli artisti hanno scomposto in quindici moduli polivalenti, da attivare attraverso assemblee in cui confrontarsi su tematiche afferenti alla de-colonizzazione. Al Museo delle Civiltà i moduli saranno in dialogo con l’architettura dei due Palazzi sede del Museo delle Civiltà, dividendosi in una composizione inedita che ospiterà due assemblee de-coloniali, l’8 e il 16 giugno 2023 al Palazzo delle Scienze, e in un’altra, con un saggio video, che occuperà la Sala delle Colonne del Palazzo delle Arti e Tradizioni Popolari.

[1] Concetto espresso da Germano Celant all’interno del saggio “Verso una storia reale e contestuale” pubblicato nel catalogo della mostra Post Zang Tumb Tuuum. Art Life Politics Italia 1918–1943, tenutasi presso la Fondazione Prada di Milano dal 18 febbraio al 25 giugno 2018.